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STORIA DI UN CALCIATORE – L’INFANZIA

STORIA DI UN CALCIATORE - L'INFANZIA

Non avevo ancora due anni. Eravamo in spiaggia. Mio padre mi mise un pallone più grande di me davanti ai piedi. E io, che a malapena mi tenevo sulle gambe, lanciai un tiro che travolse l’ombrellone. Come fosse il più naturale dei gesti. Come se il pallone fosse il prolungamento del piede. Tra lo stupore e l’orgoglio di mio padre. E le bestemmie di mia madre.

Da allora, ogni giorno, scendevamo in cortile. E calciavo. Di destro o di sinistro. Era indifferente. Tiri secchi e precisi. Poi rincorrevo il pallone e di nuovo calciavo. E a lui brillavano gli occhi. Intravedendo le stimmate di un campione.

A sei anni mi iscrisse subito ad una scuola calcio. Mi portava sempre agli allenamenti. Che piovesse  o ci fosse il sole, lui era lì. A guardare i miei progressi. A sognare ad occhi aperti al giorno a cui avrei debuttato a San Siro.

Ero molto più forte dei miei coetanei. Mentre gli altri giravano intorno al campo senza costrutto, io prendevo palla e dribblavo tutti. Entrando in porta col pallone. Talvolta, arrivato sulla linea di porta, la passavo ad un compagno a porta libera. Il Mister mi aveva spiegato che i grandi calciatori sanno essere altruisti.

Così a 8 anni entrai nei Pulcini della squadra del mio quartiere. Lì conoscevano già tutti le mie capacità. Nel rione si vociferava di un giovane campioncino. E ad 8 anni già giocavo con gli undicenni.  E durante i tornei veniva tutta la mia famiglia a vedermi. Gli zii, i cugini, i nonni. E mio padre, che era un tipo nervoso, si scaldava quando qualcuno mi scalciava malamente. Tanto che delle volte quasi finiva in rissa. Con me che un po’ me ne vergognavo.

Non mi piaceva solo il calcio. Mi piaceva andare in giro in bici con gli amici, giocare con le biglie. E poi suonare ai citofoni e scappare. O fare i gavettoni dal mio terzo piano. Fatto sta che appena compariva un pallone, io dovevo averlo e palleggiare. Farlo stare tra i miei piedi. Al riparo.   E in ogni caso sarebbe iniziata subito una partita con due massi a fare da porta e un gesso a descrivere le linee.

Perché io giocavo a pallone mattina e sera.  Con mia madre che urlava il mio nome dal balcone per ricordarmi di tornare a casa.

Sono Gianni Bartozzi e a 8 anni giocavo nella squadra del mio quartiere. E non potevo fare a meno del pallone.

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