Il Barone non si alzava mai dalla panchina. Non sbraitava sulla linea laterale. Non inveiva contro giocatori svogliati. Rimaneva seduto. Mantenendo il self-control. E mostrando quell’eleganza e quella signorilità che da calciatore lo facevano il padrone del centrocampo.
Perchè Nils Liedholm veniva dal freddo. Da quella terra di laghi e fiordi che crea uomini discreti e riflessivi. Spinti dalla forza della ragione e dalla purezza dell’intelletto.
Eppure a contatto con il mondo latino, il Barone si innamorò della passionalità della gente del Mediterraneo. E di quel calcio vissuto con le viscere che la rappresenta.
Ad adorare i palleggiatori brasiliani e l’estro del Sudamerica. Non la fisicità nordica ma l’estetica ammaliante di chi carezza la palla.
E poi a mutuare abitudini da basso napoletano. Con la sua proverbiale scaramanzia. Tanto da condizionarlo nelle scelte tecniche. Peggio di un incallito giocatore del Lotto.
Per poi tornare alla lucidità nordica. E guardare al calcio nuovo. A quella difesa a zona guardata sempre con diffidenza nella terra dei marcatori. Insegnando sempre un calcio propositivo. In cui fosse la palla a muoversi veloce. Più che gli uomini. Detenendo il possesso. Senza speculare.
Un calcio dai piedi buoni. Spostando anche centrocampisti in difesa. Perchè anche la retroguardia fosse parte della costruzione. Perchè tutti partecipassero ad un’idea corale di squadra.
Tirando su stuole di ragazzi. In cui magari scorgeva quella lucidità e quella visionarietà nel gioco che furono le sue quando si impadroniva della metàcampo.
È stato un maestro Liedholm. Perchè non ha allenato, ha insegnato calcio. E ha scelto di vivere tutta la vita in Italia perchè era diventato anche lui figlio putativo di questa terra. E dopo aver vinto a Roma e Milano, ha deciso il suo “buen retiro” tra le campagne del Piemonte. A creare vini con la stessa meticolosità con cui una volta creava traiettorie di gioco.