Ricordo che nell’84 i miei zii fecero un 12. La famiglia si riunì in festa dove si stappò spumante e si sacrificò l’agnello buono finché la sera scoprimmo che la vincita era di ben 30000 lire. Avevano speso più soldi per festeggiare.
Nel mentre si era generata un’accesa discussione su come avremmo impiegato i milioni vinti e già cominciavano a palesarsi i primi parenti emigrati a Milano.
Chi li avrebbe investiti in una salumeria, chi in una casa in centro, chi, più pigro, li avrebbe destinati ad un buono fruttifero della Posta, così a campare di rendita.
La schedina era così, generatrice di sogni.
Non era matematica come le scommesse dove sai quanto vincerai. No, lì rimaneva la sorpresa dell’incasso quando verso le 20 ti avrebbero comunicato l’importo.
Io, ogni sabato sera, andavo con i miei cugini al “Bibo Bar” a giocare la schedina per mio padre e, con la paghetta che mi dava, giocavo le mie due classiche colonne da 1000 lire. Ricordo che avevo questa strategia: i risultati più scontati, mettendo l’1 solitamente alle squadre casalinghe e poi una sorpresa sconvolgente.
Un 2 tipo Juventus-Catanzaro in grado di far lievitare la vincita. Nel bar mi divertivo ad osservare i matematici del gioco: i mitici SISTEMISTI.
Persone che avevano conquistato a fatica la terza media che ragionavano di generazioni di colonne con il fare di uno statistico. Ore e ore a fare arditi calcoli in un italiano stentato. Io giocavo la mia e la riponevo con grande cura nel mio portafogli a strappo, stando attento a non sgualcirla.
Ne prendevo poi una vuota su cui avrei segnato i risultati il giorno dopo. Ché la notte pensavo alla bicicletta da cross che avrei comprato con la vincita, quella con gli ammortizzatori che ti facevano sobbalzare ad ogni dosso.
E la domenica mi sistemavo sul letto con mio padre ad ascoltare le partite, segnando i risultati sulla schedina vuota.