Capita talvolta. Capita l’impossibile. Che una piccola nazione fatta di isole e montagne vinca. Che tra l’incredulità di tutti batta la supponenza dei grandi. Di chi per tradizione e forza ti guarda con alterigia.
La piccola Grecia era una squadra materasso. Una pratica da sbrigare. Di quelle partite dove far girare palla e trovare il pertugio giusto. Per scardinare difese arroccate.
E invece il mago Rehhagel riscopre un calcio antico. Fatto di marcature ad uomo e contropiede. Resuscitando un ruolo ormai defunto. Il libero. Con tale Dellas che nella Roma fa la panchina. E qui invece comanda la difesa a testa alta. Chiudendo e lanciando.
E con giocatori comprimari. Che si barcamenano nel calcio europeo. E che qui si raccolgono a far fronte unico. A difendere compatti. Granitici. Come quelle rocce nere spaccate dal sole delle isole dell’Egeo.
Un muro contro cui si frangono le corazzate. Non più abituate al contatto fisico incessante della marcatura. E a questa diga che spinge indietro le velleità offensive.
La vittoria del sacrificio. E dell’umiltà. Con il gol di Charisteas nella finale contro il Portogallo padrone di casa. Ché le lacrime non bastano a contenere l’amarezza. Per un Europeo ormai ad un passo.
Nessuno dei protagonisti di quell’impresa diverrà un campione. Neanche Charisteas. L’eroe della finale.
Ma il pallone ci racconta talvolta delle favole.