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ALEXI LALAS

ALEXI LALAS

Capelli lunghi e arruffati. Lungo pizzetto rosso. Come fosse venuto dalla Seattle del grunge. Come il calcio fosse solo un risibile passatempo. E la vita vera dimorasse tra chitarre e accordi. Lì dove viveva la sua autenticità.

Un americano in Italia Alexi Lalas. In mezzo a gente che vede il pallone come una religione. E lui, nato nel paese dove il calcio era un passatempo per ragazzini alle superiori, che guardava con sufficienza a queste manifestazioni di fede. Per questo quasi naif nei suoi atteggiamenti. Un marziano tra i campi dello stivale.

Perché la vita è altrove. E, quando l’arbitro fischia la fine, esiste l’arte e l’amore. E un’esistenza che va goduta appieno. E nelle sue interviste pareva ricordarlo. Di fronte alla solennità di intervistatori troppo zelanti, ricordava quanto fosse bello tornare a casa dalla sua ragazza e dalla sua chitarra.

Sbarcò in Italia dopo il bel mondiale casalingo. A Padova. In Serie A. Considerato inizialmente come un personaggio folkloristico. Lo zio americano. Il generale Custer. L’elemento anomalo. Ma poi si impose padroneggiando la difesa con personalità e fermezza. Con la testa alta e la sua naturale leadership. Facendo ricredere chi guardava con diffidenza a questo americano che giocava a pallone.

E poi fuori dal campo con le sue dichiarazioni sopra le righe. Poco attente alle formalità. E il suo stile disincantato conquistò tutti. Forse perché ricordava quanto fosse bella la leggerezza. Il non prendersi troppo sul serio.

E che alla fine, dopo tutto, è sempre un gioco.

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